“Malgrado tutti i vostri tagli, ce ne sono di solito altri da fare. Tagliare diventa sempre più doloroso e sempre più difficile. Alla fine non vedete nemmeno una singola frase, in nessun punto, che possa essere tagliata, e allora dovete dire: ‘Altre quattro pagine intere devono sparire da qui’” (pag. 106)
“Patricia Highsmith (1921-1995) è stata la più grande giallista americana; i suoi libri, oltre a essere dei perfetti meccanismi per la suspense, sono tra gli esempi migliori di analisi psicologica dei personaggi e rappresentano un modello di scrittura ancora oggi inimitabile nel quale convivono una raffinata capacità di costruzione dei personaggi con un ritmo incalzante ed irresistibile. Dai suoi libri sono stati tratti alcuni importanti film, tra i quali “Delitto per delitto” di Alfred Hitchcock, “L’amico americano” di Wim Wenders e “Il talento di Mr Ripley” di Anthony Minghella.”
Il testo della Highsmith si presenta, nella nostra edizione 1998 di Minimum Fax, come un libretto di 143 pagine in formato davvero tascabile (è alto un palmo). La copertina richiama il layout dei vecchi Gialli Mondadori e il payoff “teoria e pratica della suspense” lascia intendere il taglio tecnico che ci aspetta. Il titolo originale è “Plotting and writing suspense fiction” ed è stato pubblicato per la prima volta nel 1966.
Andrea Camilleri, nella prefazione all’edizione del 2007, scriveva: “I capitoli che vanno dal 6 al 9 (La prima stesura, Gli intoppi, La seconda stesura, Le revisioni) e soprattutto il decimo, Anamnesi di un romanzo (che sarebbe il suo L’alibi di cristallo) sono fondamentali per chi vuole imparare il mestiere.”[fonte]
Il libro restituisce appunto la visione concreta di un mestiere, cosa che ritroveremo anche in Raymond Carver e Stephen King (e in genere negli scrittori americani): dunque agenti letterari, rapporti con le case editrici, mercati di riferimento, definizione dei generi. E soldi: “è saggio per uno scrittore avere un’altra attività, con cui guadagnare del denaro, finché non avrà alle spalle libri sufficienti a procurargli un piccolo reddito costante.” (p. 13) E come si fa ad accelerare la costruzione di questo reddito? Il consiglio di Patricia è pratico: “Per scrittori dotati di un’immaginazione feconda, scrivere racconti di suspense è un mezzo splendido per ampliare il proprio campo, e incrementare le entrate”. Detto questo, a fine libro – proprio all’ultima pagina – citerà “la Authors League”: “In America il 95% degli scrittori deve fare per tutta la vita un altro lavoro, per sbarcare il lunario.” Aspirante scrittore avvisato…
INTRODUZIONE
Bene, ora si tratta solo di scrivere un libro di successo. E, per capire di cosa parliamo, ad appena due righe dall’inizio, la Hignsmith ci spiega che un “libro di successo” è nient’altro che un “libro leggibile” (p. 5). E un libro leggibile comporta “l’arte [di] catturare l’attenzione del lettore raccontandogli una cosa divertente, con cui valga la pena di passare qualche minuto, o qualche ora” (p. 6). E un tipo eccellente di libro leggibile, capace di catturare l’attenzione, è un romanzo di suspense: “Userò la parola suspense nel modo in cui lo usa l’editoria, per significare racconti che contengono una minaccia di azione fisica violenta, e di pericolo, oppure pericolo e azioni veri e proprio.” (p. 7) “C’è azione o la promessa dell’azione in tutti i buoni romanzi, ma nei libri di suspense l’azione tende a essere più violenta. Questa è l’unica differenza.” (pag. 70)”. “Altra caratteristica del racconto di suspense è quella di offrire divertimento in un senso vivace e generalmente superficiale” (p. 7).
Rispolveriamo per un attimo la vecchia questione sulla differenza presunta tra una letteratura di “Serie A”, mainstream – definita tout-court come “Narrativa” -, e una letteratura di “Serie B”, “popolare” e di solito identificata con i generi: giallo, thriller, romanzi rosa e via dicendo. La Highsmith è consapevole che si tratta di una classificazione obsoleta, se a fine libro dirà:
“Penso che molte delle cose ho detto riguardino la scrittura in generale, o quanto meno la narrativa. L’etichetta suspense che piace tanto all’America, ai librai americani e ai critici americani, è soltanto un ostacolo all’immaginazione dei giovani autori, come ogni categoria, ogni legge arbitraria.” (pag. 131).
D’altra parte, pensiamo a Stephen King, il “re dell’horror” e dunque simbolo per eccellenza della letteratura di genere, con 350 milioni di copie vendute al 2015, di cui tredici solo in Italia. Molti dei suoi romanzi non sono certo collocabili unicamente nel loro filone di riferimento: pensiamo a lavori eccellenti come Cuori in Atlantide, It o ai racconti di Stagioni diverse. Oppure pensiamo a Umberto Eco e al suo Il Nome della Rosa, tradotto in 47 lingue e venduto in trenta o (secondo altre fonti) cinquanta) milioni di copie: è “solo” un noir di ambientazione medievale? Per farvene un’idea, potete sfogliarne le prime pagine qui sotto.
E’ un servizio Amazon, ma non è pubblicità: quando lo sarà, vi avvertiremo.
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A proposito di generi letterari: “Forse ho in me un istinto criminale grave e gravemente represso, altrimenti non mi interesserei tanto di criminali, non scriverei di loro così spesso” (pag. 56). Così la Highsmith fornisce un’ironica chiave di lettura a chi si domandi come mai abbia scelto proprio il filone del thriller. D’altra parte la sua storia personale non fornisce indizi particolari in tal senso, pur contenendo elementi meritevoli di approfondimento: era una gran viaggiatrice, aveva problemi con l’alcol e coltivava idee antisemite.
L’ANALISI
Ma ora torniamo al nostro libro e andiamo al sodo.
Alla fonte di ogni romanzo, dice Patricia, troviamo i “germi della storia”: i quali, lungi dall’essere agenti patogeni, sono la sostanza primigenia di ogni libro di narrativa. “Per esempio, il germe della trama di ‘Sconosciuti in treno‘ era: «Due persone decidono di assassinare il nemico una dell’altra, creandosi con ciò un alibi perfetto»” (p. 8). Rapido e preciso come un gancio al mento.
“Per esile che sia, il germe di una storia porta spesso con sé un fattore importantissimo per il prodotto finale: l’atmosfera.” (pag. 15). E “siccome l’atmosfera arriva attraverso uno o tutti e cinque i sensi, o anche da un sesto, è necessario usarli. L’odore di una casa, il colore dominante di una stanza […] e i suoni…” (pag. 95). L’atmosfera tornerà con forza nel capitolo sugli “Intoppi”, legata all’effetto che lo scrittore intende dare al libro (e ai problemi che la perdita di tale “effetto” può generare): perciò non sottovalutiamo di definire l’atmosfera complessiva della nostra storia, prima che sia troppo tardi.
By the way, chissà quale atmosfera immagina Patricia quando ci racconta la sintesi di due germi, uno legato al racconto di un’amica su un bambino tiranneggiato dalla madre, l’altro associato a una ricetta di cucina che prevede la bollitura di una tartaruga. La storia che ne scaturisce è questa: “La madre porta a casa la tartaruga per farne uno stufato, una tartaruga che all’inizio il bambino ritiene destinata a lui, un animaletto per tenergli compagnia. Il bambino racconta della tartaruga a un compagno di scuola, cerca così di guadagnarne la stima, e promette di mostrargliela. Poi assiste all’uccisione della tartaruga nell’acqua bollente e tutto l’odio e il rancore accumulati contro la madre esplodono. La uccide durante la notte, con lo stesso coltello da cucina che lei ha usato per la tartaruga” (p. 11).
Ma per arrivare a pensarle, certe storie, bisogna prima saperle riconoscere. E per farlo ci vuole tempo e spazio. Dunque in chiusura di capitolo la Highsmith ricorda che “il piano dei rapporti sociali non è il piano della creazione” (pag. 13): in qualche modo occorre ritagliarsi “una stanza tutta per sé” dove portare avanti in pace il proprio lavoro, anche mentale. Sul tema ritorna più avanti, quando si tratterà di trovare il tempo per scrivere davvero (bisogna pensare le storie, ok; riconoscerle, certo; ma alla fine dovremo anche scriverle). Rivolgendosi alla pletora di aspiranti scrittori che per il momento fanno altro per vivere, afferma: “Se volete scrivere con un altro lavoro, è importante che abbiate un determinato momento, ogni giorno o ogni fine settimana, consacrato alla scrittura. […] Cinque sere a settimana, di due o tre ore ciascuna, o ogni sabato per otto ore, o quattro sere alla settimana di tre ore ciascuna – uno scrittore deve farsi il suo orario e rispettarlo. […] Non occorre essere o sentirsi un mostro per esigere ogni tanto due o tre ore di assoluta tranquillità. […]” (pag 75-78)
“E’ possibile pensare per tutta la vita come uno scrittore, voler essere uno scrittore, eppure scrivere di rado, per pigrizia o mancanza di abitudine. Persone cosi possono scrivere mediamente bene, quando ci si mettono […] ma non è detto. Scrivere è un mestiere e richiede una pratica costante” (pag 75-78).
“Quanto alle piccole difficoltà della vita, esse sono miriadi. Quale scrittore non ha dovuto lavorare col mal di denti, con fatture da pagare, con un neonato ammalato nell’altra stanza o nella stessa stanza […]?” (pag. 51).
Il capitolo successivo – una piacevolissima chiacchierata su emozioni, ricettività e consapevolezza – si apre con rinnovato pragmatismo: “ho la sensazione di aver dato finora informazioni e suggerimenti che non rendono comunque l’idea di cosa veramente sia scrivere un libro”. In effetti, i primi tre capitoli – circa 40 pagine – non entusiasmano chi cerca strategie pratiche o tecniche di scrittura. Ma sono comunque legittimi, secondo noi, perché parlano del modo in cui l’autrice raccoglie i pensieri, seleziona le idee e coltiva le emozioni. Processi squisitamente soggettivi e al contempo dotati di un forte potere suggestivo. E d’altra parte, crediamo che valga anche per la Highsmith quanto afferma Stephen King nel suo “On Writing”: Steve aggiunge a volte un “Credetemi” per sottolineare frasi che potrebbero suonare vaghe o secondarie., e quel Credetemi ci ricorda che un autore di bestsellers, quando ci parla di scrittura, merita sempre una buona dose di fiducia a priori.
Nel quarto capitolo il puzzle inizia a comporsi: parliamo dello “Sviluppo”
“Per sviluppo intendo il processo che deve aver luogo tra il germe di una storia e la trama dettagliata”. “L’idea va rimpolpata con personaggi, ambienti, atmosfere” (p. 39). “L’ambiente e la gente devono essere nitidi, come fotografie – senza sfocature” (p. 40). Entra nel vivo col paragrafo “Infittire la trama”, attività che “consiste nell’accumulare complicazioni per il protagonista, o per i suoi amici.” (p. 41)
Accenna – per disinnescarla – ad una storica diatriba sulla trama, ossia se questa dev’essere character driven o plot driven [provate a digitare su google: “plot driven”…]: “Quanto a lasciare che sia la trama o il personaggio a prendere in mano la storia, non vedo alcun motivo perché uno dei due metodi debba essere ritenuto superiore o inferiore all’altro”
Quel che conta è che “una trama, dopo tutto, non dovrebbe mai essere una cosa rigida nella
mente dello scrittore che si mette al lavoro. Dico di più: credo che una trama non
dovrebbe neppure essere già completa. Devo pensare al mio divertimento, e amo
le sorprese. Se so già tutto quello che succederà, non è granché divertente
scriverlo. Più importante ancora però è il fatto che una trama flessibile
lascia i personaggi liberi di muoversi e di prendere decisioni, come la gente
viva” (pag. 46).
Intermezzo della Redazione.
Leggendo l’ultima citazione, inopinatamente condivido un gioco d’infanzia che – a pensarci ora – somiglia all’animarsi incredibile di una trama che “sfugge” al controllo del suo stesso autore.
Disputavo partite di calcio in camera mia, sdraiato a terra con due pupazzetti alti dieci centimetri, fingendo che ciascuno fosse ogni giocatore della propria squadra. Queste partite, forse un esempio da manuale di gioco simbolico, si svolgevano con un pallone immaginario su un campo immaginario dove l’erba era moquette blu, le linee laterali coincidevano con l’armadio di qua e il tavolo di là, e la porta era una riga tracciata col gesso, come in Dogville di Lars Von Trier. Ogni volta che facevo incrociare i pupazzetti per un dribbling sulla tre quarti, un tackle in area o un colpo di testa sotto porta, improvvisavo una telecronaca appassionata (narrazione), e non c’era mai certezza di come andasse a finire: calcio di rigore, prodezza del bomber o deviazione in calcio d’angolo. Perciò il risultato di ogni azione era per me ogni volta una sorpresa (suspense), e di conseguenza lo era l’esito dell’intera partita (trama).
“Una trama flessibile lascia i personaggi liberi di muoversi e di prendere decisioni, come la gente viva” (pag. 46)
“Un personaggio recalcitrante può far cambiare rotta alla trama in una direzione migliore di quella a cui voi avevate pensato in partenza” (pag. 60). “I fattori che infittiscono una trama si potrebbero anche chiamare i puntelli della trama. Si dovrebbero inventare [solo] quelli più logici” (pag. 47)
Il capitolo cinque si intitola “Tramare” e parla di scalette, perché se è vero che la trama non dev’essere completa, l’autrice ritiene “eccellente, per uno scrittore al debutto, fare una scaletta capitolo per capitolo – anche se gli appunti saranno brevi – perché i giovani scrittori tendono molto a divagare. Il punto iniziale per la scaletta di un capitolo dovrebbe essere chiedersi: «In che modo questo capitolo farà avanzare la storia?» […] Se vi pare che l’idea che avete per un capitolo farà avanzare la storia, dovreste elencare i punti essenziali da trattare in quello stesso capitolo” (pag. 55) senza ignorare la possibilità di “coincidenze quasi, ma non del tutto, incredibili” (pag. 57). In questa operazione, la Highsmith richiama il concetto di sospensione dell’incredulità:“Forzate al massimo la credulità del lettore – il suo senso della logica è molto, molto elastico – ma non spezzatela”.
Poi si passa al ritmo, legato a doppio filo alla scaletta, perché “uno scrittore dovrebbe sistemare gli avvenimenti della sua storia nella successione più divertente e piacevole, e il giusto ritmo della prosa, lento, veloce, o medio, verrà probabilmente da sé.” (pag. 59). In aggiunta alla scaletta, viene segnalata la possibilità di usare diagrammi “con la linea che andava su, giù, su, giù. Le punte su erano contrassegnate da certi avvenimenti della storia. Questo metodo costringe uno scrittore a vedere la sequenza degli eventi in proporzione all’intera trama. Si potrebbero anche contrassegnare le punte, a titolo indicativo, con un determinato numero di pagina – ciò mostrerebbe, almeno suppergiù, a che pagina si dovrebbe essere quando si giunge a quello specifico momento della storia.” (pag. 72)
E arriviamo così al capitolo 6, il primo di quelli citati e promossi da Andrea Camilleri. È la “Prima Stesura” e si apre con un riferimento ad un tema noto e temuto nel losco ambiente della scrittura: quello dell’incipit. La Highsmith lo smarca con consueta, cruda praticità: “La prima frase è importante perché o spinge il lettore a infilarsi nella storia oppure gli fa chiudere e riporre il libro” (pag. 62)” e poi cita alcuni dei suoi. Il primo è “Sconosciuti in treno” e vale la pena riportare il passaggio:
“«Il treno correva con un ritmo rabbioso, irregolare. Si fermava a tutte le piccole stazioni, sempre più frequenti, e dopo una breve sosta impaziente riattaccava la prateria»
Il paragrafo continua per sette righe, ed è seguito da una frase, di due righe, che introduce il personaggio principale, Guy, in un umore inquieto simile a quello del treno:
«Guy distolse lo sguardo dal finestrino e si appoggiò alla spalliera del sedile»
Il paragrafo successivo, di tre righe, descrive una situazione semplice e familiare […], poi torna la scena di Guy sul treno, in due paragrafi di media lunghezza che […] non affaticano il lettore.”
(pag. 63)
Ecco, il segreto per un buon incipit sembra risiedere nell’arte di non “affaticare il lettore”. Parlando del suo Alibi di Cristallo (romanzo alla cui “anamnesi” dedicherà il cap. 10) e del suo protagonista Carter, dice: “Il lettore viene introdotto alla scena della prigione attraverso sentimenti e pensieri che potrebbero essere i suoi, in circostanze simili, e non è confuso né affaticato da informazioni su perché Carter si trovi lì. Questo può venire dopo, quando il lettore sarà interessato a Carter”. Il punto è che “il lettore non vuole essere tuffato d’improvviso in un mare di informazioni, di fatti complessi, che difficilmente potrà collegare ai personaggi, visto che ancora non ha avuto occasione di conoscerli. E poi sbattere il lettore nel bel mezzo di una scena emotiva, di una lite, di una scena passionale di qualsiasi tipo, è uno spreco di munizioni, dato che il lettore non può assolutamente sentirsi coinvolto senza conoscere i personaggi. Direi quindi che è bene dare un senso di movimento senza presentarne subito le ragioni” (pag. 66).
E tutto questo è vero ed efficace: provate a leggere l’anteprima del libro, cliccando sul banner qui vicino [banner non ancora attivo].
Allargando l’analisi dall’incipit al primo capitolo, il consiglio è di inserirci delle linee d’azione, anche potenziali, o la promessa dell’azione: il desiderio di far qualcosa o la sensazione di un pericolo. “Una linea d’azione si può creare con la semplice descrizione dei rapporti tra i personaggi, purché i rapporti stessi siano dinamici” (pag. 70)
Una piccola perla di saggezza, a nostro modesto avviso, riguarda i dialoghi: “Il dialogo fa effetto, e andrebbe usato con parsimonia, così da fare più effetto al momento giusto. Per esempio, una lite tra coniugi può essere riassunta così: «Howard rifiutò di cambiare parere, sebbene lei avesse discusso per una buona mezz’ora. Alla fine, lei rinunciò». Dopo di che si potrebbe aggiungere un’unica frase, in un paragrafo a sé, del tipo: «L’hai sempre avuta vinta tu”, disse Jane. “Perciò segnati un altro punto»” (pag. 71).
Nel capitolo sugli “Intoppi”, fatta la distinzione tra piccoli intoppi – roba di una frase – e grandi intoppi – roba grossa, che intrappola mani e cervello, “con i personaggi paralizzati e una storia che muore prima della sua fine” -, ci si concentra subito sui secondi. Occorre soprattutto imparare a prevenire, ricordando l’effetto che si voleva creare nella storia (e che, durante l’intoppo, si è perduto). “Un autore dovrebbe sempre esser sensibile all’effetto che crea sulla carta […]. Dovrebbe sentire quando qualcosa non va con la stessa rapidità con cui un meccanico avverte un rumore strano in un motore; e dovrebbe correggerlo prima che peggiori.” Pag. 85).
“Molti intoppi”, poi, “sono più nella mente dello scrittore che sulla carta […]. Ha una vaga sensazione di insicurezza di aver comunicato in qualche punto a peggiorare e che la storia non sia più ne buona né convincente.” (pag. 95)
In chiusura, l’autrice affronta il tema del punto di vista: la prima persona singolare è la più difficile, dice, e lei preferisce – “se la storia riesce a reggerlo” – avere due punti di vista in terza persona, come in “Sconosciuti in treno”. Riferendosi poi agli scrittori in erba, sostiene che sia saggio iniziare da punti di vista di personaggi emotivamente affini, per poi sperimentare personalità differenti man mano che si progredisce “con la pratica dell’immaginare”.
La “Seconda Stesura” è preceduta da una lettura completa ma veloce della prima, alla ricerca di problemi di ritmo, trama, incompletezze macroscopiche. Naturalmente, se leggendo troviamo frasi che suonano subito inutili, superflue, ci invita a eliminarle subito e di corsa: “Non ci vuole molto a tirare una riga di matita su una frase, e ci da il giusto atteggiamento sdegnoso verso la nostra prosa” (pag. 98). Una volta terminata la lettura, si fa la lista delle brevi annotazioni prese: “scrittura maldestra, un passaggio troppo breve, un punto non abbastanza enfatizzato […], ‘terribilmente noiosa la visita di lui alla vecchia zia’, […]” (p. 100) e quindi si parte dal problema più grave, avendo sempre presente l’esigenza di “chiarezza”. E ci si mette al lavoro.
In una fase successiva ci sono le revisioni richieste dall’editore o dall’agente. Capitolo interessante, con gli aneddoti su Hitchcock e Depardieu.
Finale
Siamo quasi alla fine e Patricia, mantenendo fede alla concretezza che fin qui l’ha contraddistinta, ci presenta la “Ananmnesi di un romanzo”. Si tratta de L’alibi di Cristallo e ce lo smonta davanti agli occhi, nei mattoni costitutivi che finora ci aveva raccontato “in teoria”: in 23 succose paginette, vediamo quindi il germe concreto dell’idea, lo sviluppo e i suoi elementi e avvenimenti fondamentali, la trama che colloca e ordina gli elementi, gli inevitabili intoppi e la prima stesura che “aveva una trama un po’ diversa […] e fu respinta dall’editore” (pag. 119).
“Mi ritrovavo a quel punto con un manoscritto respinto e o cambiavo il protagonista, la storia, tutta la seconda parte del libro, o non sarebbe stato accettato da Harper, e forse da nessun altro”. Scenario apocalittico per uno scrittore imberbe, ma non per Patricia Highsmith che si mette all’opera e porta a termine il lavoro; d’altra parte “L’alibi di cristallo non fu il mio primo fiasco. Anche The Two Faces of January era un disastro nella prima versione” (pag. 127).
“Ora per motivi pratici – inerenti al come vendere un libro – tratterò della seconda stesura della seconda versione de L’Alibi di Cristallo, quella che poi fu pubblicata” (pag. 123). In questa seconda stesura, è stato necessario “rileggere ancora una volta tutto il libro, le pagine ribattute, i passi chiariti, i tagli, per vedere l’effetto. Magari saltano agli occhi dei nuovi difetti. E il processo di riscrivere, chiarire, tagliare, e sottolineare va ricominciato da capo, con altri appunti. C’è una consolazione: ogni volta il lavoro diminuisce” (pag. 126). Giunge infine il momento delle revisioni, ma è l’ultima paragrafo quello più significativo: si intitola Il libro, e sta lì a dirci che tutte quelle chiacchiere, che tutto quel lavoro si è alla fine concretizzato, distillato in un oggetto reale, da allora in poi in vendita nelle librerie di tutto il mondo.
In chiusura, Patricia ci racconta le sue considerazioni sulla suspense, sul mercato librario, sul fatto che “un numero sempre più elevato di questi romanzi si fa strada in cima alle classifiche” (pag. 134), delle sue “infrazioni” al codice della suspense con libri come “Delitti Bestiali” e “Piccoli racconti di Misoginia”, del tuo tema preferito: “rapporto tra due uomini, di solito molto diversi tra loro, a volte come palese contrasto tra bene e male, a volte soltanto amici male assortiti (pag. 136).
E sebbene sia proprio adesso che ci racconta la brutta faccenda del 95% degli scrittori che per vivere devono campare d’altro, chiude il suo manualetto con un paragrafo dal titolo “il senso di gioia”:
“Mi avvio a concludere con la sensazione di aver trascurato qualcosa, qualcosa di vitale. Sì. E’ l’individualità, è la gioia di scrivere” (pag. 141).
E così, all’Umberto Eco rannicchiato in ognuno di voi, resti la gioia di scrivere e la speranza di ritrovarsi un giorno in quella punta luminosa dell’iceberg, nel leggendario cinque per cento. Ah, non siete americani? Allora l’iceberg affonda un pochino di più. Ma sursum corda e continuate a seguirci: tutto fa brodo e noi abbiamo appena aperto il frigo.
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